“Ma che stai a fa mo?” La domada mi arriva con cadenza periodica da parte di mia nonna ogni volta che sto a cena da lei.
“Intelligenza Artificiale.” rispondo io “Te l’ho già detto trecento volte!”. Rispondo sempre allo stesso modo e allo stesso modo ricevo sempre la stessa risposta: “Intelliche? Che sarebbe?”.
A questo punto arranco una risposta cercando di far minimamente intuire qualcosa sul comportamento intelligente di agenti artificiali ad una donna di 80 anni che non sa sintonizzare il digitale terrestre. La discussione ovviamente termina con il suo sguardo vuoto e allo stesso tempo contento che suo nipote faccia qualcosa di così complicato. La difficoltà fondamentale non consiste però nello spiegare di che cosa si occupa, in linea generale, l’AI, piuttosto il problema sta nel far capire perché sia così difficile da fare.
Se nelle altre scienze ci si occupa di cose tremendamente complicate, di campi gravitazionali, di reazioni chimiche, di strutture tridimensionali delle proteine e ricombinazione genetica. Nessuno che non abbia conoscenze specifiche si mette a discutere di queste cose con chi invece studia la materia da anni. Nell’AI, invece, da 50 anni si discute di cose chiare anche ad un bambino di 6 anni. Le persone quindi ti considerano o un fesso o un pazzo che cerca di replicare cose che solo il buon dio può donare e fare (come se i nostri cerveli fossero entità sovrannaturali).
Le cose cadono. Il passare del tempo. L’erba cresce. La differenza fra animali e piante. La morale. Sono tutti piccoli esempi di cose che qualunque persona o bambino sa quasi in modo innato ma che risultano terribilmente complicate da spiegare ad un robot.
Questa conoscenza di base prende il nome di conoscenza comune. Non esistono attualmente agenti intelligenti dotati di conoscenza comune. Gli unici tentativi in tale senso (ad esempio mindpixel) consistono nella creazione di enormi database contenenti tutta la conoscenza comune umana sotto forma di proposizioni logiche inserite manualmente.
Questa metodologia è valida come soluzione temporanea ma penso sia inadatta ad essere una soluzione definitiva (oltre ad essere poco elegante e affascinante). Dopotutto quant’è la conoscenza comune di un neonato? Poca. Quasi nulla. Questo dimostra che un sistema dotato della giusta base, dei giusti stimoli sensoriali e della giusta capacità di apprendere, può sviluppare autonomamente, tramite l’esperienza, la propria conoscenza comune.
“Ah! Famme il robot che pulisce pe casa!”. dopo aver afferrato cosa faccio mia nonna se ne esce spesso con questa frase. Ma anche molte altre persone, pensando alle applicazioni dell’AI, si perdono nel sogno del “robot maggiordomo”. Tuttavia anche questa applicazione ha il forte bisogno di una buona conoscenza comune. Essa è infatti necessaria per l’interpretazione del linguaggio parlato e per poter adempiere in modo autonomo ad una serie di compiti molto variegati quali cucinare, lavare i piatti e falciare il prato. Un tale robot dovrebbe sapere che il cibo lasciato troppo sul fornello brucia mentre lasciato poco resta crudo, che i piatti che cadono si rompono, che l’acqua calda lava meglio di quella fredda, che la falciatrice si trova nel ripostiglio e via dicendo ma allo stesso tempo non necessita di essere esperto in chimica e termodinamica per poter valutare l’effetto del fuoco sul cibo ne calcolare campi gravitazionali e forze per sapere che un piatto che cade si rompe o che girarsi troppo velocemente con un bicchiere in mano può far cadere l’acqua.
La conoscenza comune potrebbe essere anche utilizzata per far rendere conto l’agente stesso dei propri limiti favorendo così l’apprendimento di nuove procedure specifiche.
Insomma, la ricerca sull’AI, se escludiamo tutto il lavoro di logica e di ricerca su grafi, si riduce proprio a questo: la ricerca di un modo per rappresentare ed apprendere la conoscenza comune.
Tutte cose che sanno tutti in modo inconscio e naturale. Quindi anche se mia nonna non sa e non saprà mai nulla sull’AI, per ora, sa già molto più di tutti noi che ci lavoriamo su.
Considerando che rimangono spesso a guardarmi con un’espressione vacua anche quando dico che studio beni culturali (non è difficile, dai!, prova a analizzare i termini uno per volta e poi mettili assieme!), direi che la risposta di tua nonna non sarebbe neanche tanto assurda. 😀
Negli ultimi tre anni ho avuto modo di osservare la crescita di un bambino a scadenze mensili da quando è nato, e mi sono reso conto di una cosa: è solo un agglomerato di memi.
Non c’è nulla di ciò che dica che non sia qualcosa che ha già sentito da altri, non c’è un solo atteggiamento che non abbia appreso da un adulto o da un cartone.
Con il tempo l’unica differenza è che diventa sempre più difficile rintracciare l’origine del meme, perché aumentano le fonti e memi simili si confondono e attraverso l’errore qualcuno è modificato oppure usato a sproposito. Notare che l’adulto è fatto in modo da stimolare l’uso di errori nei memi, ad esempio ridendo e stimolando il bambino quando esso se ne esce fuori con frasi simpatiche ed originali che siano adeguate al momento, e scoraggiandolo in caso contrario.
Inizio a credere che un essere intelligente sia un apparato che ha accumulato un numero di memi* tale che distinguere il singolo meme e rintracciare la sua fonte sia complicato (come rintracciare la condizione iniziale in un sistema caotico), e che sia in grado di rispondere agli stimoli esterni ed ai memi prodotti dagli altri esseri intelligenti con una combinazione di memi adeguata.
*un meme in questa accezione può essere una combinazione coerente di movimenti e suoni, ai quali noi diamo il significato di gesti e parole solo grazie ad altri memi che si combinano coerentemente con il primo.
È la stessa mia idea. Il problema è creare un modello matematico o a “black-box” che simuli un tale processo di apprendimento.
Nella mia mente pensavo che un modello simile potrebbe essere simulato con una rete di cluster neurali auto modellanti. In cui gruppi di reti neurali specifiche per ogni “meme” vengono create ed interconnesse fra loro. Il problema è che una tale struttura è dannatamente complicata da fare e attualmente non c’è un algoritmo particolarmente efficiente. A meno che non si riduca la precisione dei calcoli… cosa che ci potrebbe anche andar bene.